M.



M. è originaria di Asti, la sua famiglia di Monale d’Asti, ma ha vissuto a Condove la maggior parte della sua vita. La sua testimonianza racconta di un'epoca in cui la Valle di Susa ha attirato lavoratori e famiglie provenienti da altre parti del Piemonte e d’Italia, e in cui Condove ha iniziato ad arricchirsi di presenze esterne a quello che era il suo più antico nucleo montano.

Le vicende e le avventure dei parenti di M. illuminano inoltre vari momenti di migrazione piemontese, in una rete che per alcune generazioni ha unito la Valle alla pianura piemontese, travalicando le Alpi sia in direzione della Francia, sia in direzione della Svizzera: discendenti della sua famiglia di origine risiedono ancora oggi nelle province di Torino e di Asti, in Francia nelle città di Montauban (dip. Tarn e Garonna, regione Occitania) e di Aubagne (dip. Bocche del Rodano, regione Provenza Alpi Costa Azzurra), e in Svizzera nel Canton Ticino, a Giornico.

M. nel 1937 al mare con due impiegate della servitù presso la ricca famiglia torinese




Elvezia, Cichin saponaio a Marsiglia, i cugini di “Montobà”


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“Il piemontese io l'ho imparato da mio nonno, perché mia mamma [Appolonia] e mio papà [Battista] con me e mia sorella parlavano in italiano. Non per qualcosa, ma perché loro due non si capivano altrimenti”.

Appolonia nacque nel 1908 a Giornico, in Canton Ticino, dove la sua famiglia, di Mergozzo (Novara), era emigrata per lavoro: là facevano tutti gli scalpellini.

Battista nacque nello stesso anno a Monale d’Asti, dove il papà possedeva delle vigne di barbera.

Appolonia restò orfana a dodici anni, il padre morì di spagnola, la mamma subito dopo per cause non chiare. I fratelli erano troppo piccoli per adottarla, e dopo un primo momento con i nonni, venne mandata a fare la serva a casa di una cugina della madre che a Torino aveva sposato un siciliano arricchito, vicino alla famiglia Savoia. In quella casa, al piano nobile di un palazzo di corso Re Umberto, Appolonia divenuta Elvezia, “la svizzera”, crebbe con la servitù, godendo tuttavia di un occhio di riguardo da parte della signora, che le concedeva di partecipare a qualche viaggio, qualche gita al mare e qualche prima di stagione d'opera (Napoli e Venezia, preferibilmente).

Battista, ultimo di cinque fratelli, nacque dopo che i genitori Cichin e Luigia erano tornati da Marsiglia, dove il padre si era impiegato nell'industria del sapone, rimase orfano di mamma all'età di quattro anni. Cichin, il papà, aprì per i figli una mescita di vini a Torino, in via Massena. Battista portava il vino anche in corso Re Umberto, dalla famiglia in cui cresceva Elvezia.

Intanto almeno tre dei cinque fratelli erano tornati in Francia, dove alcuni sarebbero rimasti, a Montauban. Battista non volle saperne della Francia, Torino andava benissimo.

Elvezia e Battista si sposarono nel 1933 e dopo poco nacquero M. e F. La guerra li riportò a Monale, sfollati in una stanza al piano terra in cinque (con il nonno Cichin, che nel frattempo, non è sicuro come, aveva perduto i suoi possedimenti). Gli altri fratelli di Battista nel frattempo erano quasi tutti in Francia.

Battista era talmente contrario all'idea di emigrare, che nemmeno quando gli si offrì di scappare dalla guerra per raggiungere i parenti di Elvezia in Svizzera non volle saperne. Piuttosto preferì farsi partigiano.

Quando la guerra passò, la famiglia tornò ad Asti, M. crebbe e si sposò con un ragazzo di Casale Monferrato. Andarono a vivere a Torino, fino a che il lavoro di lui non li portò in Val di Susa. Ecco Condove, dove i due restarono e misero su famiglia. I contatti con la Francia rimasero sempre, e sempre in astigiano.

"A Condove non avevo occasione di parlare il piemontese se non con mio marito, perché io il piemontese di qui non l'ho mai capito. Forse è per questo che non ho mai potuto fare delle vere amicizie, e sono sempre voluta tornare ad Asti".


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F.



Incontro F. al bar del paese in un pomeriggio infrasettimanale. In tempi di pandemia non è scontato che qualcuno accetti di incontrare altre persone. Entro dalla porticina bassa, in legno: sulla sinistra il bancone, dietro il barista; sulla destra tre tavolini uno in fila all'altro addossati alla parete. Uno per tavolino, le spalle appoggiate al muro, tre signori anziani. Faccio appena in tempo a percepire un discorso concitato in piemontese, tra l'oste, appoggiato al bancone con entrambe le braccia, e i clienti, una mano su un ginocchio, un gomito sul tavolino; un passo dentro e il silenzio scende, mi guardano. Sorrido. Mi presento all'oste, con cui ho parlato per telefono. Mi aspetto che mi riconosca, l'appuntamento l'ha stabilito lui, e invece no, non mi riconosce. Altre due parole e capiamo: ho parlato con il fratello. A quel punto F. alle mie spalle si fa riconoscere: mi dice che è con lui che parlerò, l'oste/fratello non c'è, ma tanto non era con lui che dovevo parlare. L'ordine dunque è ristabilito, il brusio riprende, e io e F. ci avviamo nella sala ristorante sul retro. "Da dove vieni? Di chi sei figlia?”. Una bella barba larga e folta, gli occhi azzurri, la carnagione scura. Ai piedi dei sandali di cuoio spesso, le mani nodose che sul tavolo non stanno mai ferme, picchiettano, lisciano, battono seguendo il ritmo della voce. Attacchiamo un discorso che si concluderà solo tre ore più tardi, con qualche bicchierino vuoto sul tavolo.




Mattie muratori...


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Lou matirel è la parlata, nous semes li matirà. Io sono nato a Menolzio, ma siamo solo più pochi che parliamo patois, qua fino al ’75/’80 trovavi l'ottanta per cento delle persone che parlava, ma ora saremo in trenta che parlano ancora. Da Mattie ci capiamo con Meana, Gravere, U Vilé (Villarfocchiardo), ma anche lì ormai non c'è più nessuno che parla. Poi dopo Gravere parlano occitano, e da Chiomonte non si capisce più nulla. Ma comunque tieni a mente: Mattie muratori, Meana truffatori, Gravere per altezza, Chiomonte per bellezza.


Io sono nato negli anni Cinquanta, mio padre però era del Tre, i miei nonni tutti dell’Ottocento. La mia era una famiglia che fino alla crisi del Venti è stata ricca: mio nonno era commerciante di legna, mio padre boscaiolo, facevano il carbone da vendere ai signori che poi lo usavano per cucinare.

Io invece sono muratore, ho imparato il mestiere qua a Mattie da Barba Secundo che era del Sette, io avevo dodici anni, i suoi figli erano tutti boscaioli in Francia. Da Mattie i boscaioli partivano a piedi e andavano giù sotto a Briançon, poi da lì salivano da Saint Jean, poi Grenoble, Chambery, sulle montagne, dove c'era legna da tagliare.

Mio zio, il fratello di mio padre, era un pastore evangelico, è andato a Milwaukee a fare una chiesa. Erano tutti di Menolzio. Lui poi si è spostato con una genovese. Oggi sono in contatto con la pronipote.

Mia zia, la sorella di mia nonna, era andata a Marsiglia da serventa. Le donne là facevano o la sarventa o raccoglievano la frutta: andavano in là per maggio-giugno, e tornavano qua per la raccolta delle castagne. Là vivevano in famiglia, ospitati e mantenuti, ma andavano a dormire nel solaio in diversi nella stessa stanza... Comunque a Marsiglia era pieno di matirelli, che si erano anche fermati là. I cognomi sono quelli... a Sant'Henry per esempio ci sono tutti cognomi di qua. Poi anche a Saint-Étienne, Aix-en-Provence... e a Chambery tanto.

Un fratello di una nonna è andato in America, e là poi ha lavorato in fabbrica.

Un altro zio, fratello di mio nonno, andava tutti gli anni in Francia, poi dopo è tornato qua e si è sistemato. Te l'ho detto, gli uomini di Mattie lì facevano o i boscaioli o i mezzadri.

Qua rimaneva chi stava bene, tipo mio nonno. Aveva le terre, le bestie, una volta all'anno scendeva alla fiera di S. Caterina a Rivoli e stava bene.

Quelli che tornavano dalla Francia raccontavano solo storie belle, le brutte no, e sicuramente ce n'erano di cose brutte! Ma nelle vijà, le cuentas erano tutte allegre! Nelle stalle le ragazze con le donne filavano, i vecchi raccontavano e i bambini ascoltavano; i ragazzi come me stavano fuori, a chanté Martina. Quando si chanta Martina significa che si invitano le ragazze a uscire... eh, qua un tempo era tutto uno spatuss [una gran festa]!


Poi con la crisi chi aveva qualcosa l'ha perso, allora si andava ancora di più in Francia, e non ne parliamo poi della guerra e del Quarantaquattro: del ’44 hanno bruciato Menolzio, come rivalsa contro dei partigiani che erano lì che distillavano la grappa. I fascisti sono arrivati e i partigiani hanno sparato. Uno dei partigiani ha ucciso un ufficiale tedesco... quindi poi per rivalsa hanno portato la popolazione di Menolzio in un campo, li hanno messi in cerchio, e lì in mezzo c'era anche la mia mamma con i miei due fratellini piccoli in braccio. Dovevano ammazzarli. Poi è arrivato un contrordine da Susa e non li hanno ammazzati... ma le nostre tre case erano andate a fuoco.

Comunque, noi siamo stati bene... avevamo quattro mucche, d’inverno anche una in più! Per l'inverno mia madre partiva a piedi e in 7-8 ore era al Moncenisio. Scendeva di là e prendeva una mucca gravida dagli allevatori francesi. Al ritorno faceva una pausa per la notte alla Ferrera, perché in un giorno non riusciva anche a tornare. La mucca la tenevamo con noi fino in primavera, circa a febbraio nasceva il vitello, lo tenevi due mesi e poi vendevi il vitello e ti compravi le scarpe. Con un po' di latte avanzato facevi due formaggi, e così si stava bene.

Poi tornavi con la mucca di là, a Termignon, o Lanslebourg, o Lanslevillard, e la restituivi. Erano una ventina di famiglie che facevano così... era conveniente per tutti: gli allevatori francesi così non dovevano dare da mangiare alla bestia per tutto l'inverno.

I dì darera in Francia erano tutti italiani... o sposati con un'italiana. Quando ci si trovava ci si capiva sempre, con l'italiano, o con il piemontese.

Io ho lavorato ancora tanto in Francia, in Val d'Arc, Bessan, Bonneval... con i vecchi io parlavo patois e ci capivamo, ma quando poi abitavo in Val d'Aosta ho imparato il valdostano. Con il francese lo leggo ma non so scrivere. Comunque cominciavo là a fine aprile, a ottobre doveva essere finito il tetto. Pagavano bene. Partivamo al lunedì alle 6 con una macchina in quattro, ci fermavamo da Cesco, la prima osteria che trovi andando su al Colle, dopo la dogana, e facevamo colazione. È appena sopra la Gran Scala, ogni anno andiamo ancora a mangiare. Era Cesco che comprava anche i formaggi in Francia, e poi li portava su e noi compravamo da lui.

Cesco era di Novalesa, ma andava a lavorare al Moncenisio e faceva il tramite con i francesi per i formaggi.

Alla dogana c'era sempre il signor P., il doganiere, che lo sapeva che avevamo la macchina piena di pintoni di vino, ma lasciava andare, Ah tu fais le cascout?! [la colazione], e via passare, mentre al mio amico invece faceva la perquisizione. A me non diceva niente. L'ultima volta che l'ho trovato eravamo a mangiare a Bessan io e due amici, poi scendendo giù dopo cena arriviamo a Lanslebourg, andiamo a bere ancora una volta, e troviamo P.! E giù di cognac, e ci parlava piemontese, e ci offirva da bere. Gli dicevamo: “P., sono le 11, ci chiudono il tunnel!” E lui “Ma li chiamo io quelli del tunnel, gli telefono!”.

Insomma, non ce la passavamo male in Francia, c'era lavoro, si lavorava.

Io in Francia la prima volta sono andato con il figlio di Secundo, che era del ’29. Là c'erano anche i biellesi, che facevano le volte anche a 5/6 spicchi con il pilastro in mezzo... erano dei muratori eccezionali, ma dei gran gran bastardi! Se ti fermavi a guardarli lavorare ti tiravano le pietre!

Comunque no, non ce la passavamo affatto male... una volta si cantava sempre, o in francese o in piemontese. Sempre cantavamo.


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