Tra un toumin dal Meel, un piatto di raviòles e una camminata fin sotto a Rocca Senghi (una delle tante prove della superiorità – anche in quanto a gusto estetico – di Dio sul diavolo), in Val Varaita si chiacchiera con persone che hanno diverse cose da raccontare sulla loro terra. Oggi gli abitanti che non fanno ritorno alla pianura in inverno ormai sono pochi, ma le caratteristiche colonne portanti delle case, le tante meridiane, i merletti al tombolo e la cura del paesaggio mostrano una civiltà ancora fino a poco tempo fa viva e solida.

Tra i ricordi di famiglia, le foto e gli aneddoti si fa strada una narrazione che unisce, a prescindere dal diverso paese della Valle e dalle vicende personali: l’andi e rivieni della gente, continuo e ciclico, pesante ma accettato, un charountar inarrestabile e irresistibile che sembra essere parte fondante di queste civiltà alpina. Donne che fuggivano da un matrimonio infelice, uomini che a ogni fine di stagione agricola partivano, bambini che dovevano lasciare presto la famiglia per non pesare sul bilancio domestico... e poi ancora il contrabbando in periodi di privazione, la monticazione, i mestieri ambulanti tradizionali, i mercati francesi con le bestie migliori. Non c'è un motivo per spostarsi, ce ne sono decine. E il racconto è ormai epopea condivisa, attraverso il quale ricordare e riconoscersi.




S.




S. mi accoglie nel suo salotto moderno nel giorno del suo compleanno. A mia insaputa, ovviamente... altrimenti una scatola di cioccolatini sarebbe stata non un obbligo, ma un vero piacere. Non risiede più in Valle, perché dopo aver girato il mondo ha scelto la collina. È uno degli ultimi testimoni diretti di quel fenomeno migratorio delle Valli alpine di cui si legge ormai soltanto nei libri. Nonostante la durezza di una serie di esperienze che di seguito ho per la maggior parte omesse, S. è una persona che narra con gran gusto e ritmo; per questo motivo, ciò che segue è stato solo in minima parte rimaneggiato.



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Ho avuto un’infanzia molto dura, l'ultimo di 12, mio papà era del 1900. Era un tipo particolare. Quando mia mamma nel 1992 è morta, mio papà mica è andato al funerale. Mi ha ancora menato quel giorno, perché gli ho detto che ormai era tardi per piangere la mamma. Era fortissimo. Non alto, ma fortissimo. Prendeva un sacco di grano da 100 kg e lo metteva sotto braccio. Lui picchiava eh. Picchiava che era una cosa...

A 6 anni io sono stato affittato la prima volta a Bellino per andare al pascolo con le bestie. Una bravissima famiglia, lui mai sposato, lei mai sposata, vivevano assieme al papà e la mamma. D'estate andavano a Traversagn. Io per loro andavo in pastouro, lo facevo già, ero capace. Sono stato con loro tutta l'estate. Sono andato a giugno, fino a settembre. Si stava benissimo! Eravamo all'arberch, lei mi trattava come... mi voleva un bene... mi dava le coccole addirittura! Io non sapevo neanche cosa voleva dire. Un giorno ero via con le bestie, ero sotto una barmo, poi tutto d'un colpo salta fuori qualcosa e io mi sono spaventato. Mi sono fatto pipì. Allora sono tornato giù con le mucche tutto vergognato, pensando che le avrei prese, e invece lei mi ha tutto risistemato!

Avevo 8 anni, il giorno di s. Giuseppe. Per me il cioccolato era l'eroina. Dando Neno vendeva questo cioccolato di due colori, bianco e nero, e lo tagliava a fette, ma nella mia famiglia non si poteva comprare. Mio padre andava al mercato il mercoledì, a Sampeyre. Mio padre portava il courpet, e metteva le monetine nel taschino. Quando è tornato dal mercato io gli ho sfilato 50 lire dal taschino. Sono partito e sono andato a prendere un pezzo di cioccolato. Lui se n'è accorto, ma ha fatto finta di niente... perché lui faceva così. Poi ti prendeva. La sera nella stalla c'erano solo più mia sorella e mia mamma ed io. La sera tutto di un colpo mi ha preso così, da dietro, mi ha spogliato nudo, mi ha messo con la pancia giù per terra, il piede sul mio collo, si è tolto la cintura e ha cominciato a picchiare. Mia sorella e mia mamma hanno pensato “L'ammazza”. Se le sono prese tutte e due, non con la cintura, ma coi pugni, e quando ne ha avuto a basta mi ha lasciato. Io dal collo in giù ero tutto viola. Il giorno dopo vado a scuola, io camminavo tutto storto e la maestra mi ha chiesto cosa era successo. Io le ho detto che ero caduto. Avessi detto la verità le avrei prese un'altra volta.

Fino a 9 anni ho lavorato poi anche a fare il fieno, con mio papà e mia mamma. Poi finita la quinta elementare sono andato a Torino, a 12 anni. Sono scappato da mio padre! A Torino ho cominciato a fare il vetraio con mio fratello, che era più grande, ma era uno “speciale”, come mio papà. Aveva 20 anni più di me, un po' con il carattere di mio papà. Sono stato una settimana con lui e mia cognata, poi niente, non ci trovavamo. Non siamo mai andati d'accordo. Io con la bicicletta con la cosa da vetraio sulla schiena giravo Torino. Impari subito a mettere i vetri. Una settimana con mio fratello e poi andavo da solo. Ma pensa te che a 12 anni... a me non piaceva fare così con la bicicletta in giro, perché ognuno aveva la sua zona, e tutte le zone erano piene di gente di Bertine (VV). Difatti un giorno mio fratello mi dice “Tu fai questa zona vicino a Porta Nuova”. Io quel giorno sono andato un po’ più lontano, verso Santa Rita. Ho lavorato, ma lavorato...!, che in un giorno avevo 800 lire in tasca. Più di un mese di paga! Ci trovavamo tutti a comprare il vetro nello stesso posto in via Saluzzo, dove adesso aveva comperato quello di Rabius... da Buca! La mattina arrivo lì, sento che mi arriva un calcio nel didietro, era Barnaro Grond. Ero andato nella sua zona. Mi dice: “Questa volta un calcio nel culo, la prossima volta non te la passi così bene”. Allora ho capito, non sono più andato. Però ora non si poteva più andare a dormire da mio fratello, perché si era arrabbiato anche lui. A fare il vetraio sono durato un mese. Allora ci siamo trovati con due di Torrette che lavoravano in un'azienda di costruzioni, e sono andato anche io come bocia. All'inizio non sapevo dove andare e allora dormivo sui cantieri. Si metteva il materassino per terra, e poi con l'acqua della gomma a lavarci. Eravamo in 18 sul cantiere, tutti meridionali la più parte. C'era un siciliano che dormiva con una lama da barbiere sotto il cuscino, mi diceva “Stai tranquillo che nessuno ti toccherà mai vicino a me”, era bravissimo. Lui ogni mattina beveva un bicchiere d'olio d'oliva. Poi con gli altri due di Torrette abbiamo trovato una stanza in piazza Nizza. Eravamo noi tre, dormivamo in tre in un letto. Dormivamo tre nel letto messi per traverso, e a sta signora che ci affittava la stanza tutte le settimane bisognava pagarle l’affitto, 4000 lire alla settimana. Io guadagnavo 15 lire all'ora. Mangiavo un panino, le chiamavano le banane, con un cioccolatino al giorno. Basta. Eravamo con siciliani e altri, il capo cantiere era un veneto cattivo come una bestia, e poi c'era un po' di tutto. Abbiamo fatto un palazzo in via Santa Rita, di sei piani, tutto portato sulle spalle. Sabato e domenica si lavorava, solo mezza giornata di domenica e non sempre. Finito il cantiere a Santa Rita al mese di marzo il padrone ci ha radunati tutti intorno al cantiere, eravamo in cammino che raccoglievamo tutte le macerie, e i titolari ci dicono che il cantiere era finito, da domani andavano a fare un altro cantiere e avevano bisogno solo più di 25 persone. Io non ero preoccupato, in quegli anni (1959) lavoro ce n'era. Arriva da me uno dei capi, mi picchia su una spalla e mi dice in piemontese "Da lunedì presentati in via Poma e da lunedì la tua paga oraria è 60 lire all'ora". Io con la pala sembravo una draga!! Felicissimo! Poi la settimana dopo è venuto sul cantiere e mi fa "Guarda io la paga non te la do tutta, te li tengo io, perché se no è troppo pericoloso, Torino è Torino". Poi per Pasqua mio padre mi chiama e mi dice che devo tornare su per aiutare mio zio che stava facendo la casa. Allora ho dovuto mollare il cantiere. Gliel'ho detto al titolare, il titolare mi dice "Va bene, sabato pomeriggio passo a prenderti". Mi è passato a prendere con la sua macchina, mi ha portato a casa sua, in una casa di lusso in corso Re Umberto, una casa lussuosissima, mi ha fatto fare il bagno, e poi mi hanno portato in via Roma con sua moglie, mi hanno comprato un vestito nuovo. Poi mi hanno dato i soldi che mi spettavano e mi hanno portato a prendere la corriera. Sono arrivato su a casa... non avessi mai messo sto vestito. Mio padre "Perché hai comprato il vestito e hai speso tutti i soldi?". Non le ho prese, ma avevo 4000 mila lire in tasca e gliele ho dovute dare. Prima ho tentato... 3000 lire... ma poi mi ha fatto cacciare tutto!! Con 4000 lire ha comperato due mucche. Erano tanti soldi.

Ho lavorato su, poi a fine settembre sono partito con mio fratello N. e siamo andati a Parigi. Eravamo nel 9 ottobre del 1959. N. era una persona... siamo sempre andati d'accordo, non c'era bisogno di parlare. Ancora adesso. Dopo 6 mesi lui si è sposato con una ragazza di Rore. Io facevo l'idraulico, lavoravamo per lo zio di quella ragazza. Eravamo tutti lì, vivevamo tutti nello stesso posto, trovavi tutto il paese, l'unione fa la forza. Quando arrivi in una città come Parigi... poi i francesi ti facevano morire sui cantieri. Ma a parte i francesi, poi c'erano anche gli italiani. Ho lavorato due anni per uno di Becetto, che era più di 20 anni che era in Francia, mi ha fatto... nessuno ci resisteva a lavorare. Non sono tornato a Torino perché pensavano che io lì mi sarei preso brutti vizi. Era all'inizio del momento che i meridionali venivano su... e io abitavo in via Galliari, e tutte le sere c'erano i meridionali che picchiavano, tutte le sere. Ci picchiavamo tutte le sere. C'erano i padri di famiglia sui cantieri, venuti per lavorare, e poi c'erano i giovani venuti su per fare casino. Quindi mio fratello mi ha portato a Parigi. Poi sono stato 10 anni a Parigi, sempre fatto l'idraulico sui cantieri, poi nel ’64 mi sono sposato a Parigi, con un'emiliana delle montagne dell'Appenino. Ci siamo conosciuti a Parigi perché lei era lì con tutta la famiglia. Ci siamo sposati al consolato italiano. La più giovane coppia sposata da loro. 40 anni in due. Io avevo 18 anni, ho dovuto avere l'autorizzazione giù dal Vaticano, e poi ci siamo sposati anche in chiesa, nell'unica chiesa italiana che c'era. Il giorno dopo a lavorare. Poi siamo andati in Inghilterra, e un anno dopo è nato mio figlio. I miei figli hanno doppia nazionalità.

Quando sono andato io potevi solo entrare con un contratto di lavoro. Io avevo trovato perché quando sono andato là, a Parigi, gli ultimi due anni facevo anche il vetraio, lavoravo per un'azienda italiana che aveva una vetreria lì. Ero sul cantiere dove hanno fatto la piramide della Défense, e io lì ho ricevuto la proposta di andare a lavorare in Inghilterra, fare sempre nel vetro, e niente, la cifra che si prendeva era fuori della... era... era una cosa... prendevo 4 volte. Ero il numero 4066 come dipendente. Era un'azienda gigante a St Helens, vicino a Liverpool, sul Nort Ovest dell'Inghilterra. Io non sapevo una parola. Fino a Parigi non era stato un problema, ma lì non capivo niente. Lavorare sapevo lavorare, ma per me era un sistema cui non ero abituato... era la Pilkington, la più grande produttrice di vetri al mondo, si lavorava nei forni... non ero più un vetraio, producevo il vetro, e a me non piaceva.

Erano tutti inglesi, polacchi, ma tutti parlavano inglese, non c'era nessuno che parlava italiano. Io non riuscivo a capire il maschile dal femminile, he o she. Specialmente le signore mi guardavano... e pensavo “Qui ho detto una cazzata”! Era la mia tattica, che quando non riuscivo a capire io facevo proprio lo scemo completo. Una tattica. Lì mi aiutavano sempre!! Poi ho imparato e dopo lo parlavo abbastanza bene credo perché la gente non pensava che fossi straniero, poca gente mi riconosceva. Dopo 8 anni ho ricevuto una lettera dal Ministero degli Interni inglese, avevano esaminato la mia situazione, e mi davano la cittadinanza. Io sono andato e ho detto no, mi dispiace, io sono nato italiano e morirò italiano.

Comunque mentre ero lì alla Pilkington, ho trovato un italiano che veniva dalle zone della mia ex moglie, e lui vendeva gelato, Ice Cream Palais. Mi ha detto che guadagnava bene. E infatti ho cominciato nel ’68, e sono stato fino all’88. Producevamo e vendevamo gelati. Ho cominciato con un negozio, poi ne ho avuto un altro. Poi avevo capito che la distribuzione con i furgoni pagava di più, e allora ho comprato due furgoni e io e mia moglie andavamo in giro. I gelati arrivavano confezionati e li distribuivi. Vedi, io, il commercio... mi piaceva. E poi sono stato lì 20 anni.

Io in Francia ho tribulato, in Inghilterra invece sono stati dei signori. Posso inginocchiarmi. Non sbagliare là eh, perché se sbagli paghi, non c'è via di scampo. Però se tu fai il tuo dovere... bisogna capire che tu sei un emigrato, allora tu parti dal presupposto che tu sei un immigrato. Non puoi andare nella nazione di un altro e dettare legge. Io andavo a giocare a golf tre volte a settimana lì, ho giocato sempre a golf, là costa poco, avevo imparato come si vive in Inghilterra.

A casa io e mia moglie parlavamo inglese, anche se eravamo italiani. Perché nel commercio...

Poi ci sono stati problemi nella famiglia di mio fratello, e io sono tornato in Italia per un funerale, e mia mamma mi ha detto “Devi aiutare tuo fratello”. Io ci ho pensato un po', con mia moglie ci eravamo separati, mio figlio era d'accordo, e allora sono tornato in italia, ho preso l'azienda di mio fratello che non esisteva più praticamente, gli ho dato quello che aveva bisogno, e poi ho fatto il rimpatrio, tutto legale e tracciato, e ho preso in mano l'azienda io da solo.

Così sono ritornato in italia nell'88 e mi dicevano “È un terrone questo qua”! Perché io il piemontese non l'ho mai parlato, nostro modo solo a casa, e qua mi davano del terrone! Sapevo il francese e l'inglese, e mi trattavano così.

Nell'azienda di mio fratello non potevo lavorare... non ero abituato, il lavoro o lo fai bene o non lo fai... Allora ho comperato qua, un capannone, e poi sono andato lì, mio figlio si è congedato, abbiamo iniziato a lavorare noi due, poi è venuta anche mia nuora e siamo andati avanti, il primo anno abbiamo fatto un fatturato da morire di fame, ma 10 anni dopo sono passato a un fatturato di venti volte tanto. Sempre nel vetro, e da lì siamo andati avanti. Io sono andato in pensione nel 2007, e l’azienda aveva ormai ventiquattro dipendenti.

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M.


Incontro M. nella casa più bella di Celle, con stupende colonne adornate da meridiane, una delle quali regge un colmo altissimo. Mi invita a entrare, accende la stufa e inizia a raccontare, un po' in italiano, un po' in francese, lingua d’elezione. M. nacque a Bellino da mamma del paese e papà immigrato dalle colline astigiane, a lungo andare e non senza difficoltà poi accolto nella comunità locale (tra altre cose, mi racconta di quella volta in cui il papà si era unito agli uomini del luogo per andare a commerciare bestie in Francia: lasciato indietro dai compaesani in occasione di un controllo della Gendarmerie, era stato arrestato e trattenuto diversi giorni).

M. ha lavorato molti anni in Belgio e in Francia come insegnante di italiano per stranieri. Oggi ricorda con piacere le estati della sua infanzia, quando per le vacanze Bellino vedeva il rientro temporaneo degli emigrati, che si portavano appresso figli perfettamente (e quasi esclusivamente) francofoni; si giocava insieme, in un misto di lingue e modalità comunicative che i bambini impiegano spontaneamente.


Per l’occasione del nostro incontro, M. ha contattato diverse di quelle compagne di giochi, amicizie coltivate nel tempo, nell’infanzia e durante gli anni francesi, per farsi raccontare brevemente le storie dei loro antenati bellinesi.

Segue una delle storie che M. ha letto per me in francese, commentandola qua e là per spiegarmi attrezzi, procedure e parole che non si usano ormai più.


la meridiana sulla cappella di S. Anna



J. e le vigne di Caromb

[racconto di Y., figlia di J., nata a metà Novecento a Caromb]



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J. nacque il 9 agosto 1912 a Bellino nella Grangia del Coulet, dove viveva insieme ad altri undici fratelli. A sette anni veniva mandato da solo al pascolo nelle montagne. I pascoli erano quelli comunali, qui davanti, oppure familiari, che si trovavano soprattutto ai piedi del Pelvo. Gli inverni erano però troppo lunghi e difficili, con tanta neve e nessun lavoro, e l'economia familiare in alcuni casi non era sufficiente a mantenere tutti.

J. aveva sedici anni quando, in una giornata di fine autunno, suo papà lo accompagnò in direzione della Francia, a piedi, verso il colle dell’Autaret. Dopo diverse ore di cammino il papà si fermò e disse a J.:

Vedi quella montagna laggiù? Quando l'avrai superata sarai in Francia.

Per il papà come per il figlio la separazione fu molto dura; J. non voleva piangere davanti a suo papà, così entrambi si girarono senza dire nulla e ognuno riprese la sua strada. L’uno continuò a salire verso la frontiera, l’altro ridiscese verso Bellino.

J. era atteso a Caromb, vicino ad Avignone, dove un fratello si era già sistemato. La più parte degli abitanti di Celle sono emigrati laggiù. Per diversi anni, ogni primavera J. tornava in Valle. Lì passava l'estate, con un ritmo lavorativo durissimo dato dalla terra: alla fine della stagione, dopo che si era falciato, bisogna sistemare la segale. Si facevano dei fasci grossi che si portavano nei fienili, poi là si prendeva la quantità di segale che stava in una mano, con la falce piccola si tagliava la parte di troppo, poi si appoggiava il fascio sulla gamba e si arrotolava, di modo che venisse un fascio piccolo, che poi si legava con un po' di paglia. Quel piccolo fascio poi si batteva sulla gérbes, una pietra piatta, per fare uscire la segale o il grano. Ma sempre ne rimaneva ancora un po', allora lo si stendeva sul suolo e lo si batteva con les caveàles, che sono due bastoni, uno più corto e uno più lungo collegati tra loro. Si batteva con un ritmo preciso, tan-ta-tan-ta-tan, e rimanevano allora i chicchi, che dopo si passavano nell’enventour, un macchinario che separa la pula. Insomma dopo tutti questi lavori poi gli uomini ripartivano per la Francia e tornavano di nuovo per la primavera tarda per zappare e per portare le mucche. Andavano sempre a piedi in Francia. Solo più tardi andavano con il treno da Ventimiglia. Ma da qua passavano dall’Autaret o dall’Agnello, e a volte si fermavano già a St. Verain che c'era spesso già richiesta. J., come gli altri, tornava quindi in Francia ogni anno, dove il lavoro non mancava mai. J. trovava sempre facilmente lavoro, perché gli italiani erano reputati dei bravi lavoratori, nonostante l’integrazione fosse spesso difficile, soprattutto all’epoca della seconda guerra mondiale. A Caromb si producevano piante per le vigne.

Un anno fortunato J. incontrò ad Avignone V., una giovane immigrata italiana delle Marche. Si sposarono e si stabilirono definitivamente a Caromb, dove affittarono un cascinale.

Là si misero assieme a produrre piante da vigna innestate, e si lanciano in maniera accanita e senza requie nel lavoro. Dopo anni di lavoro e di perseveranza, aiutati dai tre figli, J. e V. divennero i più importanti produttori francesi di piante da vigna.


Si potrebbe poi aggiungere un paragrafo sulla attraversata delle montagne: la polizia faceva dei posti di blocco sui sentieri dell’immigrazione. Un anno mio padre è stato preso e riportato a Bellino. Ha passato la notte, e il giorno dopo ha riprovato a passare e questa volta è riuscito.

Ma nel primo villaggio francese viene di nuovo perseguito: scappa e si rifugia in una porta, ritrovandosi nella casa di una famiglia che stava mangiando. La famiglia ha pietà di questo giovane messo male, e lo invitano a sedersi e a mangiare. Per tutta la vita Jacu è stato riconoscente a queste persone per la loro generosità.

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A.


Nella casa di A. ci si trova al riparo di mura secolari, tra pietra e legno fortunati, scampati al grande incendio che nel passato ha distrutto mezza Toureto. A. conserva, in parte in archivio privato e in parte nel museo pubblico da lui creato e gestito, una buona fetta di storia della ruà, la borgata: tante foto, qualche documento originale, fotocopie di carte dell’archivio del Comune di Casteldelfino, oggetti della vita quotidiana dei tempi che furono – oggetti qualunque per occhi che non hanno memoria –, registrazioni audio e video degli abitanti ormai scomparsi effettuate in prima persona, per lo più negli anni Ottanta. Un patrimonio importante, insomma. Oltre ad aver scritto diversi articoli per il Corriere di Saluzzo, A. è un narratore appassionato dell’epopea degli abitanti di Toureto a partire almeno da metà Ottocento in poi (conosce date di nascita e di morte di quasi tutti coloro che hanno abitato la borgata).


Dall’archivio privato della fam. Philip

1908 ca.: le sorelle Philip con la mamma.

A destra, Dondo Talino, n. 1894; in basso al centro Juano (nonna di A.), n. 1904; al centro la mamma Mariano Richard (bisnonna di A.), n. 1864.




Dondo Talino



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Philip Maria Caterina (Dondo Talino) nacque a Tolone nel 1894, alle dieci del mattino, la prima di quattro sorelle. Stando al suo atto di nascita, era figlia di un operaio a giornata e di una "senza professione", entrambi di Casteldelfino e domiciliati a Tolone. Fino ai quattordici anni restò nella stessa città francese, dove frequentò la scuola fino alla classe settima. A casa si parlava l’occitano della Val Varaita, dove Talino apprese dalla mamma il berlingoine, ossia il modo di Bellino. Mamma Mariano infatti era di Posterle, Comune di Casteldelfino, ma vallata di Bellino.

Com’è, come non è (e non si sa com’è), dopo il 1907 la famiglia era di ritorno a la Toureto. Talino era stata destinata a sposare Jouan Marquet, il quale non le interessava per niente. Si era infatti innamorata di un giovane povero, che la famiglia però non aveva approvato. Così nel 1913 Talino e Jouan si sposarono. Nel 1914, mentre si trovavano a Savona per via del mestiere ambulante di Jouan, arrotino e ombrellaio, il primo figlio morì a sedici mesi. Nel 1919, mentre Jouan era soldato, morì anche il secondo figlio, di tredici mesi.

Una volta finita la guerra, Jouan e Talino decisero di separarsi. Il matrimonio non andava, ed evidentemente la vita a La Toureto non faceva per nessuno dei due. Talino voleva tornare in Francia, Jouan voleva cambiare vita e aria. Talino, attorno ai trent’anni, tornò da sola a Tolone, la città che conosceva. Si dice fosse molto bella, e forse era rimasta molto sola e senza quella rete su cui pensava di poter contare, oppure semplicemente amava l‘indipendenza e di lavorare sotto padrone non ne voleva sentir parlare. Non si sa. Fatto sta che Talino da quel momento e poi per tutta la vita visse da sola, guadagnando onesti soldi da prostituta. Pare non volle più riaccompagnarsi a nessuno, e certamente non volle più far ritorno alla ruà, dove per altro la gente mormorava. Un suo nipote la andò a trovare nel 1980, quando Madame Philip aveva ottantasei anni. Sentendo che al di là della porta si annunciava in francese un parente di Torrette, dapprima Talino non volle aprire. L’uomo, scontento del trattamento ricevuto, stava per andarsene; stizzito, mormorò ad alta voceMa tetoun [eufemismo], partou da la rouà per counouise ma dondo, e i me duerp nhonco l'ues!”, ed ecco che Dondo Talino aprì la porta.

Si dice abbiano parlato a lungo. Una foto di famiglia la ritrae molto sorridente. Sarebbe mancata dopo poco tempo.


Jouan ebbe una vita non meno avventurosa: da arrotino e ombrellaio che era, decise di andarsene a esercitare il mestiere nella cugina Francia, a Tolone. Non poteva però andarsene prima di aver venduto ogni sua proprietà, mobile e immobile. Il notaio si piazzò con il suo tavolino di fronte all’abitazione della ex-coppia e in poche ore l’incanto fu concluso. A Jouan non rimanevano che i vestiti che aveva addosso e un biglietto di sola andata. La storia narra che si vendette anche lou maiolou al grido di Qui ie dì?, “Chi offre qualcosa?”. Quando si dice "restare in maniche di camicia”.

A Tolone non restò a lungo, perché pare che là Talino lo perseguitasse, forse per esigere i soldi che le spettavano dalla vendita di tutti i beni. Jouan fece così rotta verso l’Argentina, dove in un primo momento esercitò il suo mestiere sulla costa, a Mar de La Plata.

Tornò in Italia solo una volta sola per un doppio matrimonio di famiglia, nel 1953, decisamente arricchito. Si dice che il suo occitano fosse ormai stentatissimo, potendo invece contare su un piemontese fluente. Barbo Jouanet, a quel punto detto l’Americon, offrì alla famiglia di portare con sé un piccolo pronipote rimasto orfano di madre. La famiglia però a quel punto preferì rimanere unita. Era forse finita l’epoca della migrazione intesa come consuetudine per la sopravvivenza.

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